Brand journalism: quando è l’impresa a produrre contenuti.

Il libro che questo mese aggiungo alla biblioteca di Start me Up è “L’impresa come media”, scritto e curato da Cristina Maccarrone e Roberto Zarriello.
Pubblicato a dicembre 2021 da Trèfoglie (marchio di Flaco Edizioni), “L’impresa come media”, raccoglie le esperienze di chi – per professione – lavora nel settore del “brand journalism”.

Parliamo di brand journalism quando un’azienda decide di voler approfondire storie e temi che riguardano i settori in cui opera attraverso un progetto editoriale, e quindi crea un blog, un giornale (cartaceo o virtuale), o decide di produrre podcast o video.
Se lo fa è perché vuole valorizzare e affermare il proprio brand attraverso il coinvolgimento e la sensibilizzazione dei lettori sulle più importanti tematiche di interesse pubblico e di attualità. Per questo motivo, solitamente, questi progetti vengono guidati da giornalisti professionisti.

Per capire meglio il brand journalism e il modo in cui “L’impresa come media” lo racconta, ho incontrato Cristina Maccarrone e Roberto Zarriello.

Far convivere informazione aziendale e etica del giornalismo

Ne “L’impresa come media” più volte viene sottolineato come all’essenza del brand journalism ci siano informazione aziendale da un lato e etica del giornalismo dall’altro: due aspetti che sulle prime potrebbero apparire in contrasto tra loro. “Nel libro dico che appunto quello che viene percepito come ossimoro, in realtà non lo è” dice Cristina. “Questo perché, anche quando l’editore è un’azienda che non fa normalmente informazione, il giornalista è sempre tale: usa le tecniche giornalistiche e approccia l’argomento sempre nella stessa maniera. Vale a dire verificando i fatti, avvalendosi di testimonianze, studiando l’argomento, andando a fondo e così via”. Secondo Roberto, poi, informazione aziendale e etica del giornalismo “non sono due aspetti in contrasto”. Stiamo infatti parlando di informazione aziendale e non di “comunicazione aziendale, processo che si lega alla sfera del marketing e dunque della promozione. Quando un’azienda fa informazione, per essere credibile, – continua Roberto – deve raccontare la verità (sui suoi valori, sulla sua mission, sulla sua storia). L’obiettivo non è più quello di “promuovere o vendere” un prodotto, ma è, appunto, quello di informare i consumatori. E il brand journalism, attraverso l’uso di tecniche giornalistiche, offre anche ad un’azienda la possibilità di creare un’informazione di qualità, trasformando la stessa impresa in una vera e propria media company”.

Brand journalism non è content marketing

L'impresa come media - immagine di copertinaMettiamo subito in chiaro che fare brand journalism non rientra tra le attività di Content Marketing. Seppur entrambe ruotino intorno ai contenuti, sono infatti due attività che “partono da strategie e obiettivi diversi”, sottolinea Cristina. “Il content marketing mira a fare marketing attraverso i contenuti, quindi un blog che lavori in tal senso, nel suo piano editoriale tiene molto a mente quali sono i suoi prodotti o servizi e come può spingerli attraverso degli articoli, podcast ecc…” senza ovviamente dimenticare – nel caso del digitale – l’importanza della SEO. Continua Cristina: “Questo con il brand journalism accade meno, non che Google non sia importante, ma si punta tanto sull’attualità, sulla novità, sul contenuto che è sì cercato, ma che più che altro dà un’altra angolatura, un altro punto di vista. L’obiettivo è la brand awareness ma anche diventare opinion leader. Per questo abbiamo la parola journalism affiancata a brand e non marketing”.

Pensare al brand journalism come uno strumento di vendita a disposizione dell’impresa è sbagliato, infatti il suo compito non è parlare di un prodotto o di un servizio. Dice ancora Roberto: “Il brand journalism è una forma di racconto che si serve di tecniche e strumenti propri del giornalismo (e di professionisti di questo settore) che punta a informare utenti, consumatori e stakeholders dell’identità, dei valori e del mondo che ruota attorno ad un marchio. L’”imparzialità” è garantita dalla verità e dall’etica del racconto”.

Un’altra differenza tra brand journalism e Content Marketing sta proprio nel modo in cui questi contenuti vengono presentati. “In un progetto di content marketing saranno meno presenti i reportage o le inchieste così come le interviste, cosa su cui punta il brand journalism”, precisa Cristina. “Inoltre, in un progetto di brand journalism la figura del giornalista è centrale, in un progetto di content marketing può esserci, ma a scrivere sono anche web copywriter o persone dell’azienda”.

Brand journalism come informazione ad alto tasso di credibilità

Il tema del giornalismo e della sua imparzialità se ne porta dietro un altro, molto attuale: le fake news e la manipolazione dell’informazione. Ho perciò chiesto a Roberto in che modo il brand journalism possa affermarsi come informazione con un alto tasso di credibilità. “Può farlo se esistono tre elementi che io ritengo indissolubili nel processo di informazione: verità, etica e professionalità. Non sottovaluterei, in particolare, anche l’ultimo punto, perché per far sì che un processo di informazione sia credibile, occorre che sia affidato a professionisti e non lasciato all’improvvisazione”.

L’onestà intellettuale del professionista quindi resta al primo posto. Nel libro Cristina sottolinea come nel brand journalism contino molto anche i valori che un’azienda porta con sé. “Creare consapevolezza e far conoscere il modo in cui si vuole stare nel mercato è uno degli obiettivi di fare brand journalism”. Continua Cristina: “Ecco perché è fondamentale creare un piano editoriale che, attraverso i contenuti, declini quei valori e li tenga sempre presente. Mi spiego meglio: se un’azienda ha tra i suoi valori la passione per le persone, intervistare sia i dipendenti che le persone che non c’entrano con l’azienda ma possono essere ispiranti, va in quella direzione. Così come se tra i valori ha l’attenzione all’ambiente, può costruire un piano editoriale attraverso cui informa i suoi lettori sulle iniziative in tal senso, portando delle storie di aziende o persone che stanno cercando di cambiare il mondo o dando informazioni pratiche. Fare informazione vera, avvalendosi dei giornalisti, può essere molto efficace”.

Brand journalism: gli esempi da cui imparare.

Nel libro scritto da Cristina Maccarrone e Roberto Zarriello sono presenti molti esempi di brand journalism, a loro ho chiesto di citare quelli che ritengono essere i più virtuosi: Cristina suggerisce Morning Future del Gruppo Adecco e Changes di Unipol, mentre Roberto consiglia di andare a vedere Centodieci, progetto editoriale di Mediolanum.

Naturalmente per saperne di più sul brand journalism il libro “impresa come media” è l’ideale: gli autori hanno infatti raccolto le esperienze dirette di professionisti che lavorano in ambito giornalistico su diversi media. Cristina consiglia in particolare il terzo capitolo del libro, che è curato da Alessandra Boiardi, dove è possibile trovare diversi nomi stranieri di professionisti da seguire. Roberto mi segnala anche una sua precedente pubblicazione “Brand journalism. Storytelling e marketing: nuove opportunità per i professionisti dell’informazione” (qui il link a Amazon). Per chi poi volesse approfondire e iniziare a confrontarsi con gli altri, segnaliamo il gruppo LinkedIn Brand Storytelling & Journalism.

“Limpresa come media” può essere acquistato attraverso i principali canali di vendita e sul sito flacoedizioni.com.

Foto di copertina di Roman Kraft via Unsplash.

Perché un libro di storia può stare dentro la biblioteca di Start Me Up

Nella biblioteca di Start Me Up questo mese mettiamo il libro Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond. Un libro che – come potete facilmente intuire – non è un manuale pratico su una qualche tecnica di marketing. È piuttosto un ottimo spunto per pensare a come si muove l’innovazione e un buon motivo per contrastare una qualsiasi teoria di supremazia di questo o quell’altro popolo. Un argomento che affidare al caso sarebbe troppo semplice e sbagliato se lo dovessimo considerare nella sua totalità. Certamente il caso ha giocato il suo ruolo, ma non è stato il solo e non è stato quello più determinante.

La domanda di partenza è piuttosto semplice: perché alcuni popoli hanno sentito l’esigenza di partire e conquistare altre terre e altri no? Quali sono state le condizioni che li hanno spinti a operare in questo modo? Da questa considerazione l’autore conduce il lettore in un viaggio ricco di spiegazioni scientifiche e storiche, ricco di aneddoti e curiosità che ci aiutano a capire il perché la storia abbia preso il corso che conosciamo.

I punti salienti sono proprio nelle tre parole del titolo: Armi, acciaio e malattie. Sono i tre elementi chiave che stanno alla base del successo o dell’insuccesso di una particolare popolazione. Siamo chiari, non solo elementi che spesso i popoli hanno controllato, ma che in un modo o in un altro ne hanno favorito le sorti.

Ma quindi che c’entra un libro di storia con Start Me Up?

copertina libro di Diamond (storia)Beh, innanzitutto c’è da dire che questo libro nasce da una ricerca fatta con metodi nuovi per il campo in cui opera. Jared Diamond ha spiegato la storia applicando principi scientifici e ponendosi domande più generiche. Attività che si discostano dal metodo classico degli storici abituati allo studio dettagliato di un particolare popolo in un particolare periodo (lo ha raccontato lui stesso in una intervista a Corriere Innovazione). Un metodo che ha portato i suoi frutti visto che la prima edizione del libro ha vinto il Premio Pulitzer e ha trasformato Jared Diamond in una specie di dio con un seguito osannante.

E poi perché Armi, acciaio e malattie permette di scoprire come le tecnologie si siano diffuse nel mondo, cosa le ha generate, perché proprio in quel momento e perché proprio lì. Ci aiuta perciò a capire quali siano i fattori vincenti da un punto di vista evolutivo e sociale. Siamo chiari, mica vogliamo da domani conquistare chissà cosa, ma sono nozioni utili per comprendere quali siano gli elementi essenziali su cui costruire qualcosa dentro un ecosistema esistente e i meccanismi che li governano. Un esempio? Pensate al cosiddetto Principio di Anna Karenina che l’autore descrive nel nono capitolo: è stato ripreso dal fondatore di Paypal Peter Thiel, per spiegare l’unicità delle aziende che arrivano al successo a fronte di una certa somiglianza degli errori commessi da quelle che invece non ce la fanno.

Questo è quello che per noi si dice: aprire la mente. E Armi, acciaio e malattie fa proprio questo: ti apre la mente. Quale altro motivo serve per volere questo libro nella biblioteca di Start Me Up?

Foto di copertina Nick Fewings via Unsplash

Enry’s Theory: una guida per fare impresa nell’incertezza del contesto.

Tra le definizioni che ritengo più calzanti nel descrivere cosa sia una startup c’è quella di Eric Rise. Secondo l’autore di The Lean Startup una startup è: “Un’organizzazione impegnata a costruire qualcosa di nuovo, in condizioni di estrema incertezza”.

La parte che trovo più interessante è l’ultima, quel “in condizioni di estrema incertezza” che dà, a mio avviso, la cifra di quanto il mondo di chi fa impresa sia dinamico, sfidante e pieno di dubbi.

È il mondo in cui si muove Enry’s Theory – Teoria, modelli e metodi per la gestione dell’economia liquida (nell’Era dell’Acquario). Scritto da Luigi Valerio Rinaldi, questo libro sintetizza l’esperienza che il fondatore di Enry’s Island ha vissuto seguendo numerose startup.

Naturalmente non siamo davanti a un memoir, bensì a un manuale che fissa nero su bianco la Enry’s Theory.

Rendere il proprio business “aderente al cambiamento” di paradigma.

La Enry’s Theory è la teoria – appunto – creata per “definire in maniera innovativa, efficace ed efficiente i fattori necessari per la creazione di valore economico e finanziario, assumendo una prospettiva adeguata al contesto attuale, che è quello di una economia liquida”.

L’economia liquida è quella caratterizzata da un’enorme volatilità degli elementi e degli attori coinvolti, un contesto in cui le connessioni sono tante e non sempre durature. È un tipo di economia che impone a chi ci lavora di non potersi preoccupare solo degli aspetti meramente materiali: chi oggi si appresta ad avviare una nuova impresa sa che l’aspetto economico (per citare il più banale) è solo uno dei fattori da tenere sott’occhio.

Ma Enry’s Theory non si limita a mettere in guardia l’imprenditore dal tenere conto di questi aspetti. Fornisce piuttosto un metodo per prevedere e misurare tutte le componenti, anche quelle considerate intangibili, per “rendere aderente il proprio business con gli attuali cambiamenti di paradigma”.

Le parti della Enry’s Theory

Muovendosi in questo contesto “liquido”, la Enry’s Theory si basa sul cosiddetto Enry’s Model, che a sua volta poggia su due paradigmi: quello degli asset e quello delle attività. Il primo fa riferimento agli elementi materiali e immateriali che concorrono alla creazione di valore, mentre il secondo si concentra sulle attività che ogni impresa è chiamata a fare per raggiungere i propri obiettivi.
Ogni evento legato al business verrà quindi analizzato utilizzando questi due paradigmi.

Attraverso poi il cosiddetto Enry’s Assessment sarà possibile valutare le performance di ogni attore coinvolto. Mentre grazie alla Enry’s Evaluation sarà possibile stabilire il valore economico-finanziario dell’azienda.

Da questi brevi cenni è facile intuire la portata del modello presentato da Rinaldi all’interno del suo libro. Ma soprattutto la sua totale contemporaneità del contesto in cui si muove. Questo è l’elemento di forza della Enry’s Theory, l’elemento che promette di guidare, nell’incertezza del contesto, chi vuole fare impresa.

Recensione scritta su invito dell’ufficio stampa di Enry’s Island che ha spedito una copia del volume presso i nostri uffici.

Perché chi ha un’idea d’impresa dovrebbe leggere “Da cosa nasce cosa”

Non so quando o perché ho deciso di inserire Da cosa nasce cosa di Bruno Munari nella mia lista pubblica di libri da leggere. Forse ne ho letto un estratto da qualche parte e avevo deciso che doveva rientrare nella mia biblioteca personale. L’incoscienza a volte ci azzecca e nonostante io non sia un designer questo libro mi ha divertito e per certi versi l’ho trovato utile per il mio lavoro.

Un libro sulla creatività

copertina libro Munari Da cosa nasce cosaSe ho deciso di parlare di Da cosa nasce cosa di Bruno Munari per dare il via alla rubrica sui libri di Start Me Up è perché questo è un libro sulla creatività. Vuoi poi per la scrittura leggera, vuoi per la semplicità delle argomentazioni Da cosa nasce cosa è a mio avviso un must per chi risolve problemi per lavoro. L’intento di Munari è quello di insegnare le basi della progettazione di cose alla portata di tutti, che risolvono problemi reali. Perché “se si impara a risolvere piccoli problemi si può pensare di risolvere poi problemi più grandi.” Munari spiega tutto in maniera lineare e attraverso modelli molto semplici. Su tutti, lo schema di risoluzione di un problema a mio avviso andrebbe appeso sul muro di ogni agenzia che progetta soluzioni per qualsiasi tipo di cliente.

La regola fondamentale che sta dietro ogni progetto: semplificare.

C’è anche un paragrafo dedicato all’importanza di semplificare. “Semplificare è un lavoro molto difficile e richiede molta creatività. Complicare è molto più facile”. Ora quanti di voi hanno progettato una app o un servizio, pensandoci di farci una startup, mettendoci dentro decine di funzioni? E adesso, pensate a quante cose o servizi usate proprio perché sono semplici da utilizzare? E, attenzione se non siamo capaci di capire quanto difficile sia semplificare è perché, per natura, è difficile quantificare il lavoro progettuale che c’è dietro a un oggetto o servizio che funziona bene. Sarà capitato a tutti, davanti a un nuovo oggetto che fa qualcosa di semplice esclamare: “Ma questo lo sapevo fare anche io”. La risposta migliore la dà Munari:

“quando qualcuno dice
questo lo so fare anch’io
vuol dire
che lo sa rifare
altrimenti lo avrebbe
già fatto prima”.

E qui capite quanto la novità rappresenti, almeno per alcuni campi, un reale vantaggio competitivo.

citazione da cosa nasce cosa - Bruno Munari

Anche se nasce per designer, Da cosa nasce cosa è perfetto per chi ha un’idea e vuole farci un’impresa. Il testo giusto, che ti induce a dubitare delle cose giuste e a porti le domande corrette. Servono altri motivi per pensare di doverlo leggere?

foto di copertina Chris Benson, via Unsplash

Cartoline da Palermo

Pubblichiamo, per gentile concessione degli autori, il capitolo curato da Push del libro “Palermo – Biografia Progettuale di una città aumentata“.

L’estratto in questione racconta l’iter dietro il seminario di Design Fiction che i membri del laboratorio palermitano hanno condotto insieme agli studenti del master in Relational Design di Abadir ad aprile 2019.

La tecnica del design fiction si è dimostrata molto utile nella costruzione di un dibattito utile a “far riflettere su un futuro più articolato, plurale e complesso del semplicistico “il futuro della città è nel il turismo”” per usare le parole degli autori. In questo caso si parla della città di Palermo, ma siamo consapevoli che questo approccio possa essere utile per qualsiasi città del Sud Italia.

Palermo – Biografia Progettuale di una città aumentata

“Palermo – Biografia Progettuale di una città aumentata” è il libro curato dal prof. Maurizio Carta, professore ordinario di urbanistica del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Palermo insieme ai componenti e agli studenti della sua scuola urbanistica.

Il volume “racconta gli ultimi 20 anni di Palermo attraverso una intensa attività di didattica, ricerca e azione e che traguarda la città dei prossimi anni proponendo scenari di futuro, strategie di sviluppo e progetti di rigenerazione e per nuove funzioni che possano portare Palermo verso il 2040.”.

Il volume è disponibile presso il sito dell’editore LetteraVentidue.

Cartoline da Palermo.

Salvatore Di Dio, Mauro Filippi, Hanna Rasper, Domenico Schillaci – PUSH design lab.

Da Atene a Quito.

Quando ci siamo trovati a Quito nel 2016 per il convegno Habitat III – un evento internazionale delle Nazioni Unite sul tema dell’abitare umano sulla terra che si ripete ogni 20 anni – eravamo consapevoli di prendere parte a un momento epocale.
La preparazione del convegno ha coinvolto migliaia di urbanisti, politici, ricercatori e tecnici, impegnati nel lungo processo di stesura della Nuova Agenda Urbana (NAU)1.

A Quito ci siamo messi in coda in 30.000 per assistere all’adozione da parte di 167 Nazioni di un documento che sovverte radicalmente i principi del Movimento Moderno sanciti dalla Carta di Atene del 1933.

Nella NAU si propone, come sottolineano gli autori dei “Quito Papers”2, un riesame della rigida separazione funzionalista delle attività che ancora domina le pratiche di pianificazione in tutto il mondo. Si intende valorizzare quindi il principio dell’aggregazione, rispetto alla zonizzazione e all’isolamento. Si propone una linea di pensiero che riconosce l’importanza del contesto e del tempo nel fare città.

I disastri naturali dovuti al riscaldamento globale, gli inarrestabili flussi migratori dalle aree più povere e sfruttate del pianeta e, non ultimi, i fenomeni pandemici come Ebola, Sars e COVID-19, sembrano essere spaventose sirene d’allarme che inducono a modificare – repentinamente e in maniera radicale – il sistema di valori, di relazioni sociali e di sfruttamento delle risorse del pianeta3.

A differenza delle certezze temporali e spaziali dei modelli del passato, nella NAU si riconosce l’esperienza, la temporalità e la sorpresa come centrali nella coreografia del fare città.
L’urbanizzazione è un processo necessariamente aperto, iterativo e incompleto: necessita di un approccio plurale, malleabile e incrementale, capace di rendere le città più giuste, più resilienti e in maggiore equilibrio con l’ambiente.

Fuori dai facili entusiasmi e dal consenso formale di eventi come Habitat III, la sfida per costruire un futuro di opportunità si giocherà a livello locale e, per essere veramente efficaci e scongiurare fenomeni sociali come i gilet jaune in Francia4, deve prevedere il coinvolgimento attivo dei cittadini di quei 167 paesi firmatari dell’accordo.
Tra questi l’Italia. E quindi anche Palermo.

Da Quito a Palermo.

Con migliaia di anni di storia alle spalle, una straordinaria complessità culturale e una posizione geografica all’esatto confine fra il nord e il sud del mondo, la Sicilia è il perfetto laboratorio per iniziative di innovazione sociale e ambientale.
Palermo, in particolare, è un luogo urbano adatto a sperimentare modelli diversi, nuove tecnologie e soluzioni, in condizioni molto simili a quel 80% di città del pianeta che non possono permettersi di riprogettare o trasformare rapidamente il proprio tessuto sociale e urbano5.

Con questa premessa nasce a Palermo il laboratorio di design PUSH, con l’obiettivo di operare all’intersezione fra sostenibilità ambientale, tecnologie digitali e innovazione sociale, adattando quindi i principi della NAU al contesto siciliano, sviluppando processi e soluzioni originali e organizzando eventi partecipativi (come gli Urban Thinkers Campus o seminari sull’applicazione delle ultime frontiere del design speculativo alla scala urbana) per facilitare la costruzione di una visione condivisa, plurale e complessa per il futuro della città.

  • Come sarà la nostra città fra 100 anni?
  • Come avrà affrontato l’innalzamento del mare, la desertificazione, i terremoti?
  • E la mafia, le speculazioni, la fuga dei giovani, i flussi migratori?

Condurre tali complesse speculazioni in modo partecipativo è estremamente complesso per via dell’enorme quantità di relazioni, specificità ed eventi che bisogna provare a tenere in considerazione, ma necessario per raggiungere gli ambiziosi obiettivi.

Da Palermo a Palermo.

Lo scorso aprile 2019 abbiamo condotto un seminario di Design Fiction con gli studenti del master in Relational Design di Abadir proprio sul futuro della città di Palermo tra 100 anni.

Originariamente utilizzato nel campo dell’interazione uomo-macchina, l’approccio progettuale del design fiction consiste nel delineare scenari esperienziali di futuro possibile per coinvolgere e provocare, stimolando il dibattito e allargando la prospettiva a “futuri” plurali e collettivi6. I futuri possibili si traducono in “oggetti dal futuro”, innescando esperienze empatiche e profonde e rendendo quindi tangibili e comprensibili nuove idee e scenari complessi.
L’approccio del design fiction sembra essere perfettamente in linea con quanto auspicato dalla NUA, in quanto mette al centro l’individuo, il rapporto con il suo contesto e con il tempo.

Volendo costruire un dibattito capace di far riflettere su un futuro più articolato, plurale e complesso del semplicistico “il futuro della città è nel il turismo”, abbiamo provato a stimolare la riflessione sul futuro di Palermo proprio a partire dalle sue cartoline turistiche.

Le cartoline con scritto “Saluti da…” mettono in evidenza, spesso in modo assolutamente sbrigativo e superficiale, il motivo del viaggio, l’identità di un luogo, le sue ambizioni.
La cartolina diventa quindi uno strumento di provocazione semplice, immediato e controverso, adatto a far riflettere, e quindi innescare in un dibattito tutti i cittadini.

La selezione di cartoline che qui riportiamo sono state esposte in centro a Palermo stimolando il dibattito pubblico a conclusione del seminario, sono pubblicate online per commenti7 e hanno fatto parte degli strumenti utilizzati durante l’ultimo Urban Thinkers Campus di Palermo “Human Flows” del 2019 come punto di partenza per stimolare il dibattito tra cittadini e istituzioni.

Un saluto da Palermo, il museo del degrado. (autrice Giulia Micozzi)

Un saluto da Palermo, il museo del degrado. (autrice Giulia Micozzi)
L’incuria dei suoi cittadini ha condotto rapidamente Palermo in rovina. Visitala anche tu e scopri come si viveva in questa città gioiello del Mediterraneo!

 

Bambuseto è il nuovo Papireto. (autrice Marianna Viscuso)

Img. 2 Bambuseto è il nuovo Papireto. (autrice Marianna Viscuso)
Palermo, protettorato cinese dal 2024, oltre ad essere il 3° porto commerciale cinese nel Mediterraneo, ospita nell’antica Conca d’Oro il più grande bambuseto d’Europa.

 

Img. 3 Palermo, una processione ogni notte. (autrice Fabiola Moscato)

Img. 3 Palermo, una processione ogni notte. (autrice Fabiola Moscato)
La 38° processione della Munnizza d’Inverno. In migliaia per le strade di Palermo in adorazione dietro una selezione di rifiuti verso la storica discarica di Bellolampo.

 

Bibliografia.

1United Nations Habitat III Secretariat (2017). New Urban Agenda. ISBN 978-92-1-132731-1.

2 Sennett R., Burdett R., Sassen S., Clos J. (2018). The Quito Papers and the New Urban Agenda. Routledge, Milton Park, Abingdon (United Kingdom). ISBN 978-0815379294.

3 United Nations (2020). World Social Report 2020. ISBN 978-92-1-130392-6.

4 Hope M. (2019). The march of climate policy. In: The Lancet Planetary Health, vol – 3, p. E295 – e296. Elsevier Ltd., Edinburgh (United Kingdom). ISSN 2542-5196.

5 Fikri K., Zhu T.J. (2015). Competitive cities for jobs and growth. World Bank Publication.

6 Grand, S. & Wiedmer, M. (2010). Design Fiction: A Method Toolbox for Design Research in a Complex World. Proceedings of the DRS 2010 conference: Design and Complexity.

7 Rasper H. (2019) Design Fiction at the City Scale.

Perché abbiamo ancora bisogno del Pensiero Meridiano di Franco Cassano

Un mese fa circa è venuto a mancare Franco Cassano, intellettuale e professore di Sociologia dell’università di Bari, autore di un saggio che ha segnato la vita e gli studi di tanti, tra cui il sottoscritto. Mi riferisco a Il Pensiero Meridiano, libro che ho scoperto grazie a una podcast di Start Me Up e che, in questo ultimo mese, ho riletto, sottolineato e sintetizzato (per i sostenitori di Start Me Up). Il tutto da appassionato del Sud Italia e non da sociologo o economista. Lo preciso per mettere in evidenza eventuali pecche che la mia breve analisi potrà mostrare.

La cosa che mi ha colpito è il punto di partenza che fa scaturire il Pensiero Meridiano. Nasce – dice l’autore stesso – come “reazione teorica a una figura rappresentata in modo così negativo e caricaturale da non poter essere vera”. Oggi forse la visione del Sud non è più così negativa ma è certamente caricaturale e chi segue Start Me Up sa come la penso in proposito. Inoltre, tutto il testo parte da un concetto di “orgoglio” che non è solo amor loci ma anche “fiducia nei propri mezzi, nella volontà di accettare le sfide senza l’aiuto degli interessi tutori”.

E questi sono solo alcuni presupposti che hanno dato il via al Pensiero Meridiano.

Per evitare di divagare mi piacerebbe mettere in evidenza qui alcune citazioni che credo dicano tanto su quanto ancora questo saggio possa insegnarci nel vedere il Sud Italia in modo nuovo e quindi totalmente in sintonia con linea editoriale di Start Me Up.

La Misura non è pensabile senza l’andare a piedi, senza fermarsi a guardare gli escrementi degli altri uomini in fuga su macchine veloci. Nessuna saggezza può venire dalla rimozione dei rifiuti. È da questi, dal loro accumulo dalla merda industriale del mondo che bisogna ripartire se si vuole pensare al futuro.

Sin dalle prime pagine de Il Pensiero Meridiano Cassano mette in chiaro che la sua è una visione concreta, che si basa su quello che c’è. Possiamo immaginare ciò che vogliamo ma il punto di partenza deve essere la realtà, lo stato delle cose. E solo lavorando su queste cose possiamo costruire il nostro futuro.

Saremo tutti più ricchi non quando avremo ulteriormente incrementato il nostro bottino privato ma quando avremo restituito a tutti le strade, le spiagge e i giardini, quando saremo guariti dalla ricerca ossessiva della separazione e della distinzione. Allora la bellezza tornerà a visitarci.

Qui c’è una denuncia verso una forma di privatizzazione degli spazi messa in atto da tempo nel Sud Italia. Eppure nei racconti dei nostri padri (ma anche se penso alla mia personale esperienza) le cose più belle che mi fanno pensare al Sud Italia sono gratis o comunque accessibili. Dobbiamo renderci conto che la bellezza a cui il sud ci ha abituato non può essere ingabbiata o privatizzata: la sua gratuità è insita in quella bellezza.

La Germania come centro d’Europa ha la paranoia di centro, quella paranoia che nasce dalla sua qualità ontologica di ogni essere per definizione circondato, accerchiato. Essa non conosce l’esperienza del confine che invece i Greci avevano interiorizzato proprio attraverso la struttura frattale della propria terra, la pervasività del mare.

Questo passaggio mi piace un sacco perché dà, se vogliamo, una spiegazione scientifica all’eterna opposizione tra modelli e stili di vita di persone che vivono in parti diverse di Europa. Posto che una suddivisione così netta è comoda solo a fini teorici, c’è da dire che trovare una spiegazione “geografica” a una differenza così netta e che spesso è stata usata per gag (o in casi più gravi razzismo), beh, mi ha fatto sorridere.

In più mi ha fatto pensare a un concetto di società decentralizzata che è molto moderno. Ho pensato a tutti gli studi che ci invitano a governare il caos e gestire la modernità. Il modello mediterraneo potrebbe insegnarci molto, se visto sotto questo punto di vista.

Non è andando verso il centro dell’identità e verso le capitali degli stati che si trova il futuro. Nelle capitali dove sembra che esista il cuore della comunità degli uomini esiste invece soltanto la sua separazione dalle altre comunità, da quelle che sono al di là della frontiera.

Questo estratto richiama quanto scritto poco sopra. La bellezza della frontiera, il suo essere luogo complesso. Un luogo caratterizzato da estreme mobilità e pervasività sia dei luoghi che delle persone: caratteristiche rendono le frontiere il luogo eletto per le innovazioni.

La libertà produce lo sradicamento che a sua volta genera la richiesta di protezione. Quest’ultima però muta le sue forme e al posto dello sviluppo e del danaro ritorna di moda la durezza sacrificale delle solidarietà di appartenenza (religione o nazione) quando e dove non si è già affermata l’economia criminale.

Metto questo passaggio perché credo che sia importante far notare come Cassano giustamente non evita di prendere in considerazione anche gli aspetti peggiori del Sud Italia. Quando lo fa, li inquadra come conseguenze di quel modello occidentale a cui il Sud è chiamato a uniformarsi e che nei casi peggiori ha effetti devastanti.

È quindi l’integralismo asettico dello sviluppo quello che bisogna mettere per primo in discussione. Senza il suo declino è difficile che si riesca a favorire quello degli altri.

Chiudo forse con l’atto di accusa principale contenuto nel saggio. Quello contro lo sviluppo forsennato, un vero e proprio integralismo a cui – a detta dell’autore – il mondo Occidentale si è votato. E io non riesco a non essere d’accordo con lui soprattutto in un momento storico in cui sempre più persone (e a quanto pare anche le istituzioni) si stanno rendendo conto che uno sviluppo senza fine non è sostenibile, in nessun campo e per nessuno di noi.

Anche per questo motivo credo che oggi più che mai ci sia ancora bisogno del Pensiero Meridiano di Franco Cassano.

Il podcast per dare voce a aziende e istituzioni culturali

Che il podcast sia ormai un mezzo sdoganato e alla portata di tutti non è un mistero. Chi frequenta questo mondo da un bel po’ se ne è accorto. Ma anche i non appassionati hanno visto quanto sia cresciuta l’offerta dal punto di vista dei contenuti a cui è possibile accedere (personalmente sapevo che era stata superata una certa linea di demarcazione quando ho visto il podcast sui parrucchieri).

Quello dei podcast quindi è un mondo popolato ormai non solo da indipendenti: parecchie aziende producono dei propri format, vedendo in questo mezzo oltre a un fenomeno di costume, un modo per raggiungere un pubblico sempre più rinchiuso nella propria bolla.

Branded Podcast: dal racconto alla promozione, come “dare voce” a aziende e istituzioni culturali

Seguendo questa scia, l’auspicio è che anche gli enti culturali possano emulare questa stessa strategia e adottare i podcast nella propria strategia di comunicazione. C’è chi già lo fa e lo fa bene, chi invece lo fa con risultati mediocri e chi non lo fa per niente. Ecco soprattutto per gli ultimi due gruppi (ma anche un po’ per i primi) è stato scritto Branded Podcast.

Branded Podcast è un libro corale che mostra tutti i vantaggi che il podcast offre alla comunicazione culturale.  Questa tesi è avvalorata spaziando tra generi narrativi diversi, illustrando le tecniche di promozione di uno show, ma soprattutto attraverso esempi concreti, numeri, e esperienze dirette.

Gli autori di Branded Podcast

Gli autori di “Branded Podcast” durante la presentazione del libro durante il Festival del Podcasting 2020

Come dice la curatrice Chiara Boracchi, giornalista, speaker radiofonica, membro di Archeostorie® e ovviamente podcaster: “Per quanto possa sembrare bizzarro, parlare dei valori di un’azienda o di un museo non è molto diverso, se si hanno storie interessanti da narrare. E da qualche tempo si è scoperto che lo strumento migliore, più innovativo ed efficace per raccontarle è proprio il podcast.”

Raccontare l’innovazione sociale e culturale in podcast: l’esperienza di Start Me Up

Per rendere questa tesi ancora più evidente l’autrice si è fatta supportare da alcuni podcaster indipendenti. All’interno del volume è possibile trovare i contributi di Sebastiano Paolo Righi, Cinzia Dal Maso, Marco Cappelli, Gaia Passamonti, Andrea W. Castellanza, Rossella Pivanti, Francesco Tassi e il mio, Fabio Bruno.

In Branded Podcast ho raccontato infatti la genesi di Start Me Up e il ruolo che questo podcast nel tempo si è ritagliato. Vista anche la tesi esposta nel libro, ho cercato di evidenziare le peculiarità di un prodotto come Start Me Up nato come testimone diretto dell’innovazione sociale, culturale e tecnologica del Sud Italia. Un ruolo che nel tempo è cambiato così come il ruolo dell’innovazione al Sud Italia che, perdendo l’entusiasmo dei primi anni ’10 del Duemila, ha modificato il suo impatto nella vita e nel lavoro delle persone che vivono in questa parte di Italia.

Di tutto questo ne ho parlato insieme a Chiara Boracchi una settimana fa circa ai microfoni di Strategia IT di Riccardo Mancinelli.

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Branded Podcast: info utili.

È possibile acquistare Branded Podcast nelle principali librerie, su Amazon o con uno sconto del 5% direttamente dal sito della casa editrice.

Branded Podcast è il terzo libro di Archeostorie®, think tank di professionisti della comunicazione che studia e sperimenta strategie per una comunicazione dei beni culturali sempre più precisa, coinvolgente e fuori dagli schemi.

I dati come strumento di creatività nella propria strategia di marketing

Questo articolo è stato scritto con il supporto di Dario Flaccovio Editore

Teniamo fede alla promessa fatta a giugno e inseriamo nella biblioteca di Start Me Up Data-driven Marketing, libro scritto da Federica Brancale e pubblicato da Dario Flaccovio Editore.

Di cosa parla Data-driven Marketing?

Data-driven marketing è un libro che si concentra sull’importanza dei dati all’interno di ogni azione di marketing. Un volume dedicato perciò non solo all’analisi dei dati che il sito web e i canali social che gestiamo sono in grado di raccogliere, ma una visione a 360 gradi che ci permettere di raccogliere, organizzare e quindi analizzare i dati per usarli nelle campagne di marketing che intendiamo mettere in atto.

Non mancano cenni allo UX Design e – anche se può sembrare paradossale – alla creatività. Questa non può non essere guidata dai dati se vogliamo che funzioni davvero. Federica Brancale fa suo il messaggio che Giorgia Lupi con il suo Data Humanism porta avanti da un bel po’: i dati da soli non servono, necessitano di una interpretazione che li renda più umani. Solo così saremo in grado di leggerli correttamente.

Punti di forza di Data-driven marketing.

Ci sono una serie di pregi che nasconde il libro di Federica Brancale. Uno è che funziona da manuale. Puoi sì leggerlo tutto in una volta (come ho fatto io) ma in realtà è utilissimo da tenere sulla scrivania. Data-driven marketing infatti si presta ad essere non solo un volume che deve stare nella biblioteca di chi porta avanti un business online, ma anche a portata di mano, pronto per una consultazione veloce mentre si lavora.

Sono nozioni che vengono fuori anche dall’esperienza diretta di Federica Brancale. Per questo motivo non trovi solo la teoria ma anche alcune cose che vorresti provare subito. Più di una volta, mentre lo leggevo, c’è stata la tentazione di mettere da parte il libro e mettere in pratica i consigli che venivano dispensati tra le pagine del libro.

Su tutto c’è ovviamente una attenzione ai dati e al modo di organizzarli al meglio. È uno degli aspetti che ho più apprezzato nonostante io non sia una persona che ami molto questo lato del marketing. Ma, scorrendo le pagine di Data-driven marketing ti rendi conto che è centrale per la riuscita di un qualsiasi business on e off line.

Sono belle anche le numerose citazioni cinematografiche che l’autrice ha piazzato all’inizio di ogni capitolo. Rendono il volume meno tecnico non certo nella sostanza, ma nella forma, ottimo quindi per chi non mastica solitamente questo tipo di informazioni.

Chi dovrebbe leggere Data-driven marketing?

Federica Brancale ha concentrato in Data-driven marketing una serie di nozioni che sono davvero utili a chi di marketing ne sa poco e vuole iniziare a lavorare partendo dai dati. Non fatevi perciò spaventare dal titolo: il testo scorre e anche gli aspetti più tecnici sono spiegati con molta semplicità e numerosi esempi. La ricerca sul campo permette all’autrice di essere molto pratica nelle sue spiegazioni: un aspetto che rende questo libro una lettura piacevole e interessante.

Chi è l’autrice?

Federica Brancale è la creatrice, curatrice e digital strategist della community online Marketing Freaks. Inoltre è data analyst e conversion rate optimization specialist presso Intarget. È stata la protagonista del web café di giugno, che è venuto fuori proprio dopo la lettura di Data-driven marketing. La registrazione dell’incontro è riservata a chi sostiene Start Me Up.

Misura solo ciò che conta: gli OKR spiegati da chi li ha inventati

Sulla scorta del web café di aprile, questo mese abbiamo letto per voi Measure what matters di John Doerr. È un libro che si concentra sulla produttività e il raggiungimento degli obiettivi. È stato scritto dall’ideatore degli OKR e racconta di come alcune grandi aziende come Google o la Gates Foundation abbiano raggiunto  risultati molto più importanti e in minor tempo grazie a questa metodologia.

Ti interessa la metodologia OKR?

Guarda il web café con Marco di Product Heroes

L’importanza di avere una direzione e la bellezza di raggiungere gli obiettivi

Uno degli aspetti che vengono messi sin da subito in evidenza nel libro è Measure what matters - misurare con gli okrl’importanza di avere una direzione. Sembra una banalità ma chi lavora a un proprio progetto spesso riscontra una certa difficoltà nel seguire un obiettivo, soprattutto se a lungo termine. Peggio è la situazione in una grande azienda con tanti manager e dipendenti. La metodologia OKR risolve questo problema permettendo a tutti di tenere sempre a mente la direzione da avere. In più, gli OKR sono caratterizzati da un approccio aperto dove sia chi è a capo dell’azienda che chi è alla dipendenze può scegliere come agire. L’importante è raggiungere l’obiettivo. Questo ha almeno due effetti sul lavoro quotidiano. Da una parte un continuo allineamento tra tutti i lavoratori (tutti sanno chi ha fatto cosa) e dall’altra parte si instaura un rapporto di fiducia. I manager non devono controllare ossessivamente quanto lavora il dipendente x e soprattutto non devono star lì a dire cosa fare. Saranno i risultati a parlare per ciascuno. Questo approccio permette perciò di instaurare un clima di confronto continuo a tra tutti i lavoratori all’interno dell’azienda, eliminando così le noiose riunioni di aggiornamento.

L’importanza degli Stretch Goals

Per poter funzionare al meglio, gli OKR hanno bisogno dei cosiddetti stretch goals. In italiano potremmo chiamarli obiettivi sfidanti. È infatti necessario porre l’asticella dei propri obiettivi leggermente al di sopra delle proprie aspettative. Questo serve a motivare tutti a dare il massimo. La regola dice che se si raggiungono facilmente tutti gli OKR allora non si sta applicando la metodologia nel modo corretto.

A chi si rivolge il libro

Il libro è stato scritto per tre tipi di lettori. Può essere utile ai CEO e ai manager che hanno intenzione di vedere crescere la produttività dell’azienda di cui fanno parte. Viste anche le enormi potenzialità degli OKR, questo libro può essere adattato anche ai founder di startup: attraverso le pagine di questo libro potranno trovare utili consigli per gestire la propria impresa in modo trasparente e con una attenzione particolare al raggiungimento degli obiettivi. Potrà sembrare insolito, ma anche chi ricopre un ruolo da dipendente potrà trovare giovamento dalla lettura del libro di John Doerr. Qui potranno trovare nuovi stimoli e nuovi modi per rendicontare la propria produttività.

Chi è l’autore

John Doerr è il VC americano che ha diffuso in tutti gli Stati Uniti la metodologia OKR. Oltre al lavoro per la Kleiner Perkins, John Doerr è stato membro dell’Economic Recovery Advisor Board dell’ex Presidente americano Barack Obama.

Measure what matters può essere acquistato qui.

Foto di copertina di Charles Deluvio on Unsplash

Andrà tutto bene se saremo antifragili

Questa è la settimana in cui dalle pagine di questo blog vi consiglio un libro da leggere. In programma ce n’era uno dedicato alla gestione delle community, ma dopo aver letto questo articolo ho pensato che fosse giusto parlare di Antifragile.

Antifragile è un libro scritto da Nassim Nicholas Taleb, filosofo, saggista e matematico libanese naturalizzato statunitense, esperto di matematica finanziaria. Ha pubblicato questo libro nel 2012 dopo che il Sunday Times aveva inserito Il cigno nero (opera pubblicata dallo stesso autore nel 2007) tra i libri che hanno cambiato il mondo.

Antifragile parla del principio di antifragilità e chiude la serie dell’incertezza (o trilogia dell’Incerto) che l’autore ha trattato in questo libro, ne Il Cigno Nero e nel volume pubblicato nel 2001, Giocati dal caso.

Perché può essere utile leggere (o rileggere) Antifragile oggi

Io ho letto questo libro tempo fa e se Taleb è uno degli autori più citati del momento (è dovuto intervenire lui stesso per spiegare che il coronavirus non è un cigno nero) è proprio in virtù del periodo di profonda incertezza che stiamo vivendo. Quindi leggere Antifragile non può che aiutarci a capire e interpretare meglio ciò che ci aspetta, visto che molti di noi si stanno sprecando in previsioni di come sarà la nostra società dopo il Covid19. A me piacerebbe che fosse più antifragile.

Cosa è l’antifragilità

Taleb definisce antifragile tutte quelle “cose” (esseri viventi, ecosistemi, oggetti) che traggono vantaggio da uno shock improvviso, ne escono cioè più forti di prima.

Antifragile - copertinaIl termine antifragile deriva da un ragionamento. Se qualcosa di fragile accusa lo shock e viene distrutto allora parliamo dell’esatto opposto. Il dizionario ci dice che il contrario di fragile è robusto, forte. Ma, ancora, qualcosa di robusto e/o forte non trae vantaggio da uno shock, anzi, più una cosa è forte, meno subisce gli effetti negativi di uno shock. Questo ha indotto l’autore a coniare la parola antifragile. Un termine che si discosta anche dal più abusato “resiliente” perché la “cosa” resiliente accusa lo shock ma resta uguale a sé stessa, quella antifragile invece migliora. Da qui è facile capire che per essere antifragile un sistema deve essere volatile: non può resistere agli shock, anzi li deve subire così da prosperare. Taleb fa l’esempio dell’Idra, il mostro mitologico la cui caratteristica principale stava nel fatto che ogni volta che gli veniva tagliata una delle teste ne ricrescevano due dal moncherino. L’idra ha trasformato uno shock in una occasione per battere i propri nemici.

Come impariamo a essere antifragili?

Taleb lo spiega nel libro. Ci consiglia innanzitutto di smettere di prevedere il futuro e pianificare ogni scelta. Le opportunità a volte vanno semplicemente colte solo perché ci si presentano davanti: non possiamo misurare tutti i pro e i contro.
Questo non significa che dobbiamo andare a fare i matti in strada, è naturale. Ciò che consiglia Taleb è ridurre al minimo il rischio quando ci troviamo di fronte a un terreno poco conosciuto. Minore sarà il rischio, minori saranno le perdite: una volta “testato” il terreno saremo pronti a prosperare. È nella natura umana accettare una perdita per crescere (il cosiddetto investimento). Cerchiamo di perdere il meno possibile.
Smettiamola infine di essere troppo rigidi. I sistemi antifragili prosperano proprio grazie all’incertezza e alla volatilità: se si è troppo concentrati su una propria idea si rischia di non vedere cosa il mondo esterno vuole dirci e ignorare quindi la strada verso un possibile successo.

Fino al 30 aprile tutti i libri di Taleb in formato ebook possono essere acquistati a soli 2,99 euro ciascuno sul sito de Il Saggiatore.

Foto di copertina: Pietro Luca Cassarino / CC BY-SA