“L’Ultimo Concerto?”: La silenziosa protesta dei live club che fa rumore

“L’Ultimo Concerto?” è l’evento che lo scorso 27 febbraio ha coinvolto oltre 300 live club e numerosi artisti del panorama musicale italiano per manifestare l’assenza della musica e l’importanza dei luoghi di intrattenimento, chiusi da un anno per le restrizioni dovute alla pandemia.

Federico Rasetti - direttore di Keepon Live promotore di ultimo concerto

Federico Rasetti – direttore di Keepon Live

Ispirata all’omonima campagna spagnola “El ultimo concierto?” l’evento ha voluto mettere in luce il difficile momento che stanno vivendo queste realtà, così per una sera i palchi dei live club si sono illuminati per una serie di eventi trasmessi in streaming.

Oltre 100.000 visualizzazioni e un’amara scoperta per gli spettatori: in scena solo il silenzio assordante che comunica, per contrasto, l’urlo di un settore in grave crisi, a cui gli artisti hanno voluto manifestare tutta la loro solidarietà.

Ho intervistato Federico Rasetti, direttore di Keepon, promotore di questo evento insieme ad Assomusica e Arci, per sapere com’è nata l’iniziativa, gli effetti che ha generato e come proseguirà.

Perché nasce L’ultimo concerto?

“L’ultimo concerto?” nasce per mettere un grosso punto interrogativo sul futuro dei live club che sono chiusi da un anno e rischiano di non riaprire più, con conseguenze pesanti sia per il pubblico con la perdita di una socialità sana e dell’aggregazione positiva sui territori, ma anche per tutto l’indotto lavorativo: i professionisti che lavorano nei live club, le produzioni e gli artisti. Dopo un anno non di silenzio, perché ci siamo fatti sentire anche in altri modi, è nata l’esigenza da parte di questi luoghi di fare una grande manifestazione di impatto.

Quanti sono i lavoratori che ruotano intorno al mondo dei live club in Italia?

Difficile fare una stima precisa, se consideriamo gli artisti, i professionisti, i baristi, i social media manager, quindi non soltanto i tecnici che lavorano direttamente allo spettacolo, abbiamo stimato circa sulle 30.000 unità.

Dietro la chiusura di questi luoghi ci sono progetti imprenditoriali fermi da un anno che non hanno mai riaperto, giusto?

Teoricamente avrebbero potuto riaprire con la ripresa autunnale a settembre-ottobre, però sarebbe stato insostenibile economicamente. Di fatto nessuno ha davvero riaperto.

L’evento principale è stato il 27 febbraio, ma l’iniziativa è partita molto prima. Quali sono stati i passi per arrivare all’evento?

In realtà siamo stati abbastanza veloci perché l’idea iniziale è arrivata più o meno a dicembre, forse prima di Natale, e quando abbiamo visto un’iniziativa molto simile, nata in Spagna, che si chiamava “El ultimo concierto?” abbiamo deciso di emularla in Italia. Lì aveva funzionato abbastanza bene, ottenendo anche un riconoscimento da parte del Governo sotto forma di aiuto economico alle sale, e coinvolgendo circa sessanta live club spagnoli. A quel punto ci siamo chiesti come fare a veicolare un messaggio che fosse positivo e ponesse l’attenzione sulla situazione dei live club, e questa poteva essere un’iniziativa alla quale guardare. Tramite la Live DMA, che è un’associazione internazionale della quale facciamo parte e che racchiude tutte le associazioni di live club europee, abbiamo chiesto ai nostri colleghi spagnoli – mantenendo il segreto per non rivelare in italia il senso dell’iniziativa – se potevamo prendere in prestito l’idea, e loro ci hanno dato l’ok. Così abbiamo iniziato organizzare in un solo mese tutto il piano di comunicazione, il coinvolgimento del club, degli artisti e delle agenzie. Il 28 gennaio, un mese prima dell’evento, abbiamo diffuso un poster con tutte le facciate riempite da punti interrogativi che riportavano l’anno di apertura del locale e il 2021 come anno di probabile chiusura.

All’inizio anch’io sono rimasto spiazzato dal post “L’ultimo concerto?”, pubblicato dal Retronouveau, un locale della mia città. Poi ho capito che il gioco era chiedere ai propri fan quale fosse stato l’ultimo concerto a cui avessero assistito.

Sono state le persone a interpretarlo così, in realtà noi non volevamo chiedere quale fosse stato l’ultimo concerto, ma porre la domanda: quale sarà l’ultimo concerto, quello che avete visto l’anno scorso o quello che ci sarà nel 2021? Perché se continua così non potremo farne altri. Questa cosa ha suscitato interesse e dato forza alla campagna di comunicazione dell’iniziativa.

Il 27 febbraio si è svolto l’evento completo in diretta su facebook. Tutti si aspettavano un’esibizione dal vivo e invece è stata trasmessa una serie di video con la presenza di numerosi artisti. Che cosa abbiamo iniziato a vedere quel giorno?

Il 27 febbraio, accedendo al sito, si aveva la possibilità di scegliere il live club e l’artista di riferimento da vedere. In realtà, non abbiamo mai detto che ci sarebbero stati dei concerti. Abbiamo sempre parlato di eventi e usato questa sottile linea di comunicazione. La stampa stessa ci era cascata tutta, dai grossi network nazionali fino alle webzine indipendenti. Collegandosi si poteva assistere alla preparazione di un live club, si capiva che non era in diretta perché erano dei video montati che simulavano l’inizio di un live, solo che poi non avveniva. Al momento di iniziare il concerto, l’artista rimaneva muto, o faceva partire una nota di chitarra e si fermava. Oppure faceva una dichiarazione o ancora restava completamente fermo davanti al palco. Questo ha provocato uno shock a molte persone. È proprio questa la sensazione che provano ormai da un anno gli operatori del settore, molti di loro stanno addirittura cambiando lavoro, ed è in atto qualcosa di molto grave, per certi versi irrecuperabile. Si sta perdendo capitale umano oltre che capitale d’impresa, e il senso di angoscia è veramente molto forte. Artisti e club volevano trasmettere questo grave pericolo, in primis alle istituzioni.

La cosa che mi ha stupito è che in tanti hanno criticato questa iniziativa. Molti hanno ritenuto che non fosse necessario fare una cosa del genere perché tutti sappiamo cosa significa stare senza concerti. Sono arrivate anche a te queste critiche? Come hai reagito?

Le critiche ci sono arrivate e un po’ ce lo aspettavamo. Noi avevamo paura soprattutto della reazione della stampa perché il nostro target erano le istituzioni. Invece gli organi di informazione hanno capito, esaltando moltissimo l’iniziativa sia per l’efficacia che per la creatività. L’evento è stato apprezzato soprattutto per l’educazione con la quale si è svolto, perché non era facile organizzare un’iniziativa che fosse di rottura senza infrangere la legge, come, invece, hanno fatto gli esercenti pubblici rimanendo aperti o facendo delle manifestazioni di piazza che in questo periodo sono rischiose e possono favorire i contagi.

Probabilmente qualcuno ha sacrificato una serata in cui avrebbe potuto vedere un concerto per un’oretta e mezza, gratuitamente, e magari è arrabbiato perché non si è divertito. Chi ha reagito così non ha compreso il messaggio. Molti hanno detto di sapere com’è la situazione, ma in realtà non è stato facile realizzare questo evento perché i costi di produzione sarebbero stati impossibili da sostenere con l’attuale emergenza economica nel nostro settore. Mi hanno scritto anche le multinazionali, qualche giorno prima, chiedendomi cosa stessimo facendo e prevedendo una figuraccia. Ci dicevano che sarebbe stato impossibile gestire 130 streaming per la nostra piattaforma. Chiaramente un evento musicale dal vivo implica un coinvolgimento diverso, ma è impossibile capire fino in fondo quanto lavoro, fatica e risorse ci siano dietro. Nessuno si permetterebbe di dire che sa come funziona la fisica quantistica, in realtà la musica ha dei meccanismi e delle tipicità che la rendono altrettanto sconosciuta al pubblico. Però questo ha reso evidente che gli artisti con un vasto seguito, come per esempio Ligabue, muovono molte persone. Infatti non abbiamo potuto annunciarlo per problemi di ordine pubblico perché avremmo rischiato che arrivassero tantissime persone a campeggiare davanti al box solo per vederlo. Anche i Subsonica sono stati criticati nell’esporsi facendo una cosa del genere. Mentre tra il pubblico dei piccoli circoli, che è molto più vicino alla realtà del club, quasi nessuno si è lamentato.

In realtà anch’io sono rimasto spiazzato quando ho visto che l’evento era gratuito, poi mi sono accorto che si trattava di brevi video e ne ho guardati un po’…

Alcuni di questi video sono molto ben fatti e commoventi. Questa è stata una protesta rock e, da quando è nato, il rock non ha mai accontentato tutti. Il senso di ribellione ha sempre tracciato dei solchi, un prima e un dopo, ed è quello che speriamo faccia questa manifestazione. In realtà anche le proteste sono servite perché hanno fatto crescere l’evento, generando attesa e dibattito. Infatti i risultati sono arrivati perché ha richiamato l’attenzione sulla situazione dei live club.

Si è parlato tanto del teatro e del cinema ma qualche esponente politico si è espresso sul mondo della musica prima dell’evento del 27 febbraio?

No, per questo motivo le associazioni che rappresentano i live club e che hanno organizzato questo evento, già da prima della pandemia cercavano un contatto con le istituzioni per far sì che queste realtà venissero tutelate. I locali di musica dal vivo non esistono per l’ordinamento giuridico, negli anni, a forza di insistere, c’è stato qualche accenno a questi luoghi e nel 2019 si stava arrivando anche ad un riconoscimento formale. Poi cadde il Governo e, come sempre succede, si dovette ricominciare da capo. L’esposizione dei politici o delle istituzioni in generale è stata sempre molto bassa, mentre dopo “L’ultimo concerto?” uno dei risultati ottenuti è che tre giorni dopo già la parola live club appariva in tre decreti. L’evento è servito a far capire che questi luoghi impattano su milioni di persone in Italia, prima, però, erano molto poche le voci a favore.

Oltre alla protesta quali sono le proposte avanzate per risolvere i problemi del settore?

Le proposte ricadono in tre macro ambiti: il primo che, forse, è il più importante e in futuro aiuterebbe ogni altra attività è quello del riconoscimento per i live club, cioè riconoscere realmente il valore sociale e culturale che hanno questi spazi, ormai al pari di cinema e teatri. L’altro è un riconoscimento formale attraverso la creazione di un albo, per far sì che lo Stato riconosca e tuteli anche economicamente i live club con delle piccole erogazioni, cosicché possano continuare a svolgere il loro lavoro, come già succede per i cinema che distribuiscono film indipendenti. Quello è un ottimo modello a cui guardare perché i club non fanno solo intrattenimento, ma molto spesso scommettono sulle giovani band, creano contenuti artistici e culturali e quindi, secondo noi, vanno sostenuti. Gli altri due grossi macro ambiti sono quello della ripartenza, quindi del sostegno alle arene estive perché si possano fare in modo sostenibile, ma con protocolli di riapertura anch’essi insostenibili, sicuramente non si può riaprire con il 25 % di capienza. E il terzo e ultimo, ma forse il più importante, la riscrittura di una legge dello spettacolo, che è ormai vecchia, con l’abolizione dell’ ISI, una tassa sull’intrattenimento, fino all’equiparazione delle capienze tra spettacoli con il loro aumento a 2.0 e l’abbassamento dell’iva al 10 % con l’equiparazione di questa, ad esempio, sui biglietti per tre differenti spettacoli.

Oltre alle varie agevolazioni di tipo fiscale, leggo anche la volontà di essere parte attiva di un cambiamento con proposte che vedono la rigenerazione urbana e un ruolo anche sociale dei club che molto spesso sono situati in zone della città in cui non c’è niente, in cui la musica gioca un ruolo fondamentale proprio perché dà alle persone la possibilità di incontrarsi e crescere anche dal punto di vista culturale.

E’ proprio così. Peraltro questa è una delle linee che più mi piace dei nostri locali e che sento più vicina nella narrativa che facciamo, ed è quella di favorire la crescita culturale e sociale dei territori. Magari non si parla proprio di rigenerazione urbana perché è una parola con una connotazione specifica. Però i live club aiutano sicuramente i territori e sono importanti nelle periferie, dove a volte sono gli unici posti, in zone afflitte dalla povertà sociale e culturale, che danno un’alternativa rispetto al solito pub o alla discoteca. Inoltre garantiscono la sicurezza: un quartiere dove c’è un locale di musica dal vivo, che fa molto spesso anche altre attività, per esempio associazionistiche, è un quartiere dove le persone possono aggregarsi in sicurezza e il territorio è presidiato anche in orari in cui sarebbe senza controllo. Certo c’è la presenza delle forze dell’ordine e questi luoghi non si vogliono sostituire ad esse, quindi possiamo dire che sarebbe bene avere più telecaster e meno telecamere.

Quanto è diffusa la cultura del live club in Italia? Ci sono tanti club in tutte le parti d’italia oppure è possibile distinguere delle zone? Ci puoi fornire un quadro…

La situazione che emerge è molto diversa. Ad esempio, al sud i live club sono molto meno frequenti, anche la cultura di partecipazione a questi luoghi, ahimè, sta calando, vuoi per la concorrenza del divano e di Netflix che spinge le persone ad uscire sempre meno, ma anche per via dei social network e per ragioni economiche. Di queste realtà, ad esempio, al nord ce ne sono di più, sono più grandi e impattano anche le politiche sociali e culturali delle regioni. In Emilia Romagna avevamo pubblicato una cartina con i live club di tutta la nazione, ed è evidente che proprio qui, oltre ad esserci un quarto dei club di tutta Italia, sono veramente ben distribuiti. In Lombardia, invece, si trovano sostanzialmente a Milano, in Piemonte a Torino, le grosse città la fanno da padrone, mentre in Emilia Romagna dove, da tre anni, c’è una legge sulla musica che tutela questi luoghi e un sistema storico di associazionismo più diffuso, i club, anche se piccoli, sono sempre stati più frequentati. Anche i piccoli paesini hanno il loro circolo dove si fa musica dal vivo.

Quindi secondo te non è qualcosa che è legato soltanto al discorso economico? C’entra anche la cultura e la voglia di usufruire di questo tipo di spettacoli…

Certo, al sud si trascorre generalmente meno tempo in uno spazio chiuso. Ci sono davvero tante concause in realtà.

Che cosa si intende per Live Club?

Guarda questa è una bella domanda. Noi abbiamo fatto un decalogo, che abbiamo consegnato ai ministeri per identificare i live club. Secondo la definizione sono quegli spazi che hanno come ragione economica e/o identitaria la musica dal vivo come prevalente. Devono avere, inoltre, una programmazione che abbia almeno il 50 % di musica dal vivo, di cui il 60-70 % di musica dal vivo originale. Cover e dj set si possono fare, anche perché il dj set performativo è a tutti gli effetti una performance. Devono avere un impianto audio residente, anche a noleggio o in comodato d’uso, e una zona palco adibita e stabile per la musica.

Voi come Keepon raggruppate buona parte dei live club in Italia permettendo loro di fare rete e, in un periodo del genere, anche di far valere i diritti di chi gestisce questi posti, giusto?

Proprio così. Noi li tuteliamo e difendiamo i loro interessi. Il nostro dovere è proprio quello di far sì che riescano a fare al meglio il loro lavoro e accrescano il loro pubblico. Lo facciamo soprattutto con le istituzioni, ma anche tramite attività di networking. Abbiamo organizzato un evento che una volta l’anno li riunisce tutti, è una sorta di convegno medico, ma un po’ più punk. E’ un’iniziativa in cui, ad esempio, un club del Piemonte può confrontarsi con un club siciliano su problematiche, desideri e obiettivi comuni.

Il testo è la trascrizione adattata dell’intervista andata in onda su radioantidoto.org.

Per seguire le attività de “L’Ultimo Concerto?” visita il sito ufficiale dell’iniziativa e la pagina facebook e l’account su Instagram.

Musica, industria 4.0 e automotive: storia di un ecosistema.



Mettere insieme musica, industria 4.0 e automotive non è cosa da tutti. Ci provo in questo podcast per raccontare tre progetti che arrivano da Messina, la città dove sono nato. Si tratta di b-rain, arancino.cc™ e Stretto in Carena.

b-rain sequencer

b-rain - in azione. Parte di un ecosistema

b-rain, un sequencer creato partendo da una Raspberry Pi 4, e utilizzando i linguaggi di programmazione Puredata e Python. b-rain punta sulla facilità d’uso, la versatilità e l’essere “open”. È uno strumento utile sia in fase di registrazione che durante un live set perché aiuta a gestire con facilità più fonti e racchiude una serie pressoché infinita di strumenti raggiungibili con pochi click grazie all’interfaccia d’uso molto semplice.

b-rain è  un progetto realizzato da Alessio Zaccone, Peppe Ruggeri e Vincio Siracusano.

arancino.cc™

arancino - parte di un ecosistema

arancino.cc™, un’architettura sviluppata da smartme.IO® basata sullo stesso concetto di comunicazione tra emisfero destro ed emisfero sinistro del cervello umano. L’architettura arancino.cc™ semplifica l’interazione cloud-IoT e facilita l’implementazione dei Cyber Physical System, inoltre sfrutta l’edge e il fog computing e si adatta perfettamente alle soluzioni di intelligenza artificiale e di machine learning.

Ne parlo con Sergio Tomasello, che lavora alla parte di programmazione di alto livello di arancino.cc™.

Stretto in Carena

team di Stretto in Carena - parte di un ecosistema

Stretto in Carena è un progetto dell’Università di Messina che in questi anni ha costruito da zero una vera e propria scuderia coinvolgendo studenti da tutte le facoltà. L’obiettivo è realizzare un prototipo di moto utile a prendere parte alla motostudent. La competizione, aperta agli atenei di tutto il mondo, valuterà le scuderie non solo dai risultati ottenuti in pista ma anche in base al lavoro di progettazione e costruzione dei veicoli.

Ne parlo con Gianmarco Interdonato, responsabile reparto elettronica di SIC.


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Ecosistema: un luogo di relazione e sviluppo.

Pur ricadendo in tre ambiti molto diversi tra loro, ho visto in questi tre progetti un legame che non è solo territoriale, ma che è facile da riassumere con il termine di ecosistema.

Un ecosistema è qualcosa i cui abitanti entrano in relazione tra loro e si influenzano, non per forza volutamente, semplicemente portando avanti i propri progetti e – se è il caso – supportandosi a vicenda.


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Foto di copertina, via b-rain.net

La musica per parlare di lavoro e salute. Uno maggio libero e pensante



Non è un mistero dire che l’uno maggio 2020 sia stato particolare, per tutti noi. Lo è stato per via del Coronavirus che non ci ha permesso di festeggiare questa ricorrenza come solitamente facevamo. Da quando mi occupo di Start Me Up sento in maniera diversa questa festa, perché i temi chiave di Start Me Up sono profondamente legati al lavoro e ai lavoratori. Ho sempre visto con molta curiosità il Concerto dell’Uno maggio Libero e Pensante di Taranto e negli ultimi anni mi sono detto che ne avrei dovuto parlare in questo podcast. Questo è l’anno, proprio quando il concerto non c’è stato. Ma non è un problema perché ascoltando il podcast, scoprirai che la musica del Primo maggio Libero e Pensante di Taranto è solo il contenitore. Un pretesto per parlare di lavoro, salute e diritti. Aspetti con cui chi decide di vivere e lavorare al Sud Italia deve fare i conti. Ne parlo con Gianni Raimondi, membro del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti.

Musica come amplificatore di un messaggio più ampio

Ripercorrendo brevemente la storia del Concerto del Uno maggio Libero e Pensante di Taranto scopriamo perché il comitato ha scelto la musica come amplificatore di un messaggio sociale e umano. Un messaggio che la musica negli anni ha fatto arrivare a tante persone e che quest’anno è stato affidato a un docufilm realizzato da Giorgio Testi, Francesco Zippel e Fabrizio Fichera. “Liberi e pensanti” è stato trasmesso la sera dell’uno maggio su La7 (qui è possibile vederlo on demand) ed è arrivato dopo due giorni di video e dibattiti che sono stati diffusi dalla pagina facebook dell’evento. Sono contributi dei vari artisti che hanno dichiarato il loro affetto per Taranto.
A questi, il docufilm ha unito le voci degli attivisti e ha raccontato di come la città pugliese stia vivendo da tempo la situazione che gli italiani e il resto del mondo hanno conosciuto in questi ultimi mesi a causa del Coronavirus. Chiudersi in casa perché fuori c’è un nemico invisibile che minaccia la propria salute. È un messaggio che ormai da sette anni viene veicolato dal palco del Parco Archeologico delle Mura Greche e che quest’anno è stato affidato ai video e alle testimonianze di tante persone che sono legate a Taranto.

Naturalmente il Comitato non lavora solo al concerto dell’uno maggio. Nel corso dell’anno si spende per la causa tarantina manifestando la propria vicinanza a chi vive situazioni simili. Si impegna in attività di sostegno al territorio, propone valide alternative di sviluppo per Taranto che sembra rappresentare in grande i tanti drammi che il Sud Italia vive. C’è una nuova consapevolezza, ci dice Gianni, e l’auspicio è che questo lavoro porti un cambiamento non solo di mentalità, ma anche nelle condizioni di vita e di lavoro di chi vive qui. Una nuova fase, in cui nessuno dovrà più scegliere tra salute e lavoro. Il primo maggio di quell’anno sarà veramente particolare per tutti quanti.


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Nella foto di copertina, la locandina del docufilm.

26. Pivot vs. fallimento: la storia di Volumeet



La foto di Massimo di Volumeet che ha fatto pivot con MusifyPiù che un fallimento in questo nuovo appuntamento del ciclo #falliscimeglio raccontiamo una storia di pivot, cioè di un cambio sostanziale nella struttura dell’azienda e del suo modello di business. È la storia di Massimo Morgante, che oggi sta portando avanti Musify, un’app che nasce sei anni fa circa con il nome di Volumeet.

Massimo ai nostri microfoni ripercorre la storia che lo ha portato a creare una startup che mette insieme social network e passione per la musica. Un mercato spesso non semplice, sia per la crisi che vive ormai da tempo e perché legato a logiche interne ben consolidate. Non è infatti un caso che Volumeet abbia cambiato più volte modello di business e abbia deciso, all’inizio di quest’anno, di fare un vero e proprio pivot.

È una storia fatta di caparbietà e tentativi quella che raccontiamo in questo podcast. Una storia che dimostra come la passione e la costanza siano due elementi imprescindibili per chi decide di fare impresa. Massimo, in questi anni, ha imparato a essere più concreto e analitico, chissà quale vantaggio ne trarrete voi che ascolterete il suo racconto.

La citazione di Massimo di Volumeet

#falliscimeglio è la serie di start me up che racconta ciò che chi fa impresa al Sud Italia ha imparato dalla propria esperienza di fallimento. Non stiamo parlando di fallimento in senso giuridico del termine, ma ci riferiamo a tutti quegli errori che ci sono costati cari e di cui è importante trarne vantaggio.

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03. Il Sistema Abreu: il valore sociale della musica



Il sistema Abreu è una metodologia che usa la musica per formare cittadini consapevoli. Lo ha inventato il musicista e attivista venezuelano José Antonio Abreu per diffondere la cultura musicale tra le persone che vivono situazioni economiche e sociali disagiate. Il suo intento non era però strettamente culturale ma partiva dalla considerazione che chi mostra passione per una forma d’arte come la musica sarà necessariamente un buon cittadino.
Del sistema (e si chiama così per un motivo specifico che viene spiegato nel podcast) ne parliamo con la violinista Valentina Caiolo, che oltre a suonare nell’orchestra del teatro Bellini di Catania è una delle musiciste che ha seguito fin dalla prima ora il progetto “Musica Insieme a Librino Catania”. Librino è un quartiere di Catania tristemente noto purtroppo per le condizioni non certo felici che vive dal punto di vista sociale e economico, ed è proprio qui che la pediatra Loredana Caltabiano (presidente associazione Musicainsieme a Librino) ha deciso di tentare la carta del sistema, coinvolgendo una serie di musicisti professionisti che lavoravano nella città etnea, tra cui la nostra ospite, Valentina Caiolo.

Il Sistema Abreu: motore di una comunità

Valentina – che aveva già sentito parlare del sistema durante alcune esperienze in giro per il mondo – ci dice che lei per prima era scettica sull’efficacia di un progetto come quello di Musicainsieme a Librino. Nel corso di questi nove anni è stata smentita su tutti i fronti: il gruppo è cresciuto in numeri e entusiasmo. Il sistema ha permesso all’orchestra di Librino di arrivare a circa 100 elementi. Da qui sono venuti fuori tanti musicisti (iscritti ai corsi musicali del quartiere) ma soprattutto è riuscito a creare una vera e propria comunità che ruota attorno al mondo della musica che coinvolge i bambini che suonano e tutti i parenti che supportano – ognuno come può – le attività dell’orchestra.

La citazione di Valentina di Catania sul sistema Abreu
Musicainsieme a Librino si inserisce tra le tante iniziative che nel tempo sono nate a Librino e che vedono la società civile impegnata nel contrastare il disagio sociale che purtroppo ancora si vive in queste vie. E dimostra anche l’internazionalità del sistema Abreu che è stato inventato in Venezuela e arriva in Italia grazie al maestro Claudio Abbado che ne aveva intuito le potenzialità sociali.

Il Sistema Abreu tra i protagonisti del FILFest 2018

Il sistema Abreu è stato tra i protagonisti dell’ultima edizione del FILfest di Catania, il festival biennale che si concentra sulla felicità interna lorda, di cui già negli anni passati vi abbiamo parlato. È un modo per sottolineare il valore sociale della felicità, un elemento imprescindibile nella vita di chi affronta quotidianamente ambienti depressi dal punto di vista economico. E il ruolo della musica, soprattutto quello sociale, è centrale come dimostra l’esperienza di Librino e di quelle zone dove il sistema Abreu è oggi presente.


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Musica e legalità: il contest targato Web Marketing Festival e Radio 100 passi

C’è spazio anche per la musica al Web Marketing Festival che, in collaborazione Radio 100 Passi, lancia la 4^ edizione del contest Rassegna nuove tendenze musicali 2018.

Il contest è un’idea di Rete 100 Passi e vuole dare continuità all’esempio di Peppino Impastato e alle iniziative culturali con le quali è riuscito a trasmettere sentimenti antimafia ai suoi coetanei. L’evento riprende il progetto nato nel 1977 con la “Rassegna nuove tendenze di spiaggia Magaggiari” (Cinisi), organizzata da Peppino e Francesco Impastato e da Danilo Sulis (attuale presidente di Rete 100 passi). Il Festival è pronto a ospitare la 4^ edizione del contest che intende offrire, col suo “Premio Peppino Impastato – Targa 100 Passi”, un riconoscimento a musicisti, cantautori e gruppi che propongano brani di propria composizione aventi come tema la legalità e/o l’impegno sociale.

Continua a leggere sul sito del WMF

foto di copertina di Anthony DELANOIX, via.

Produrre energia dai passi: il pavimento del futuro è sardo Oltre a Veranu, conosciamo meglio Bandbackers e 42 Accelerator



Produrre energia dai passi delle persone: questo fa Veranu, startup che arriva dalla Sardegna. Veranu è tra le dieci finaliste di Next Energy Program, il programma promosso da Terna e Fondazione Cariplo, realizzato da Cariplo Factory in collaborazione con PoliHub e dal Campus di Terna. «Veranu è una tecnologia che può essere installata sotto tutti i tipi di pavimento – spiega Alessio Calcagni, CEO di Veranu e ospite di Start Me Up. I passi delle persone producono energia che alimentano batterie che possono essere utilizzate per caricare led, televisori o prese usb». Naturalmente più passi ci sono, meglio è: per questo motivo Veranu è più adatto a luoghi pubblici che a case private.

 

Veranu tra i dieci progetti finalisti di Next Energy Program

 

pavimento_veranu

Nei prossimi sei mesi i ragazzi di Veranu lavoreranno con altre nove startup al Next Energy Program, un percorso di accelerazione che vedrà alla fine tre progetti vincitori. A loro verranno assegnati dei voucher che potranno essere utilizzati per lo sviluppo del loro business: 50.000€ andranno al primo classificato, 30.000€ al secondo e 20.000€ al terzo. «Saranno mesi intensi – dice Alessio – perché lavoreremo al fianco dei responsabili di Terna, del Polihub e di Cariplo Factory che ci permetteranno di migliorare e rafforzare la nostra idea imprenditoriale».
Per seguire le evoluzioni di Veranu basta tenere d’occhio il sito dove trovate anche i riferimenti ai canali social dell’azienda.

Con BandBackers i produttori musicali sono i fan

 

bandbackers_teamNon parliamo spesso di musica, eppure è un ambito in cui c’è parecchio fermento e sono tante le idee che tentano di trovare una soluzione per un mondo, quello culturale, che ha accusato più di tutti l’impatto con il web e le nuove tecnologie. Fa la sua parte Bandbackers, startup con sede a Roma e fondata dal messinese Roberto Calabrò. Roberto ci spiega il meccanismo con cui funziona Bandbackers:«È la prima label discografica community based, dove gli artisti trovano fondi per realizzare la loro musica e i fan vengono messi a parte degli utili generati dal progetto finanziato». Questo è possibile grazie al sistema definito Royalty Crowdfunding che permette ai fan di essere ripagati grazie alle vendite del prodotto che hanno contribuito a realizzare.

 

Con Bandbackers i fan diventano parte attiva del mercato musicale

 

Bandbackers nasce dall’esperienza personale di Roberto che per alcuni anni ha intrapreso la carriera artistica: un periodo utile per capire le difficoltà che questo mondo pone. «Arriva purtroppo il momento in cui non è certo che qualcuno voglia investire su di te – dice ai microfoni di Start Me Up – Bandbackers nasce quindi con la volontà di dare questo potere ai fan, che oggi piuttosto che volere il possesso di un prodotto musicale, preferiscono avere accesso ad esso e essere attori in prima persona».

 

Bandbackers tra i candidati per il programma di accelerazione di 42 Accelerator

 

Al momento Bandbackers ha partecipato alla call per entrare nel programma di accelerazione di 42 Accelerator.«Abbiamo scelto di partecipare a questa call – spiega Roberto – perché loro sono alla ricerca di un’idea disruptive per la quale non esiste ancora un mercato o il mercato deve essere ancora validato». Il gruppo in questi due anni ha lavorato molto per elaborare una risposta che fosse esaustiva per il mondo della musica, e che possa in qualche modo lasciare il segno. Quella di 42 Accelerator è una grossa opportunità e un in bocca al lupo a questi ragazzi ci sta tutto. Bandbackers ce la farà a accedere? Per saperlo non ci resta che aspettare e seguire bandbackers.com.

 

42 Accelerator alla ricerca di portatori sani di innovazione

42accelerator_team

Li abbiamo nominati più volte ed è doveroso conoscere meglio 42 Accelerator, l’incubatore che ha sede in via Mantova 36 a Torino e che, nella comunicazione ricalca l’immaginario stupendo di Douglas Adams. Ne parlo con Irene Cassarino che occupa il ruolo di program director all’interno della struttura e purtroppo non è una grande fan di Guida Galattica per Autostoppisti.

L’intervista con Irene parte dalla call che si è chiusa lo scorso 30 settembre: «Cerchiamo portatori sani di innovazione, non persone che aspirino a essere solo degli startuppari – dice ai microfoni di Start Me Up. Inoltre per noi è ancora valido il concetto di startup come High Growth Technology Business e non una forma legislativa di società come purtroppo è diventata in Italia».

 

La selezione dei 15 candidati si chiuderà il mese prossimo

 

In questi giorni sono impegnati nell’analisi di tutte le domande pervenute. Tra queste, verranno fuori cinquanta candidati, che saranno convocati per una call di verifica, così da poter approfondire le informazioni inserite nei moduli. Di questi ne verranno selezionati la metà e accederanno al 42 Challenge, un evento di due giorni che si terrà a novembre. Solo in 15 infine saranno ammessi al 42 Garage, «un periodo di prova di un mese – spiega Irene – in cui si deciderà se continuare insieme l’avventura imprenditoriale».

 

Un percorso ispirato ai modelli di crescita statunitensi

 

Purtroppo non ci sono riferimenti a Douglas Adams all’interno della struttura «Abbiamo però le magliette ufficiali e il nostro sito che recitano Don’t Panic – Start Testing», scherza Irene. Per fortuna più che a Guida Galattica per Autostoppisti, il percorso di validazione e accelerazione di 42 Accelerator si ispira ai percorsi statunitensi che nel tempo hanno dato parecchi frutti e si sono dimostrati molto validi.
42 Accelerator ha un blog in cui è possibile seguire ciò che accade all’interno della struttura di Torino. Per qualsiasi informazione potete mandare una mail a questo indirizzo.