“L’Ultimo Concerto?” è l’evento che lo scorso 27 febbraio ha coinvolto oltre 300 live club e numerosi artisti del panorama musicale italiano per manifestare l’assenza della musica e l’importanza dei luoghi di intrattenimento, chiusi da un anno per le restrizioni dovute alla pandemia.
Ispirata all’omonima campagna spagnola “El ultimo concierto?” l’evento ha voluto mettere in luce il difficile momento che stanno vivendo queste realtà, così per una sera i palchi dei live club si sono illuminati per una serie di eventi trasmessi in streaming.
Oltre 100.000 visualizzazioni e un’amara scoperta per gli spettatori: in scena solo il silenzio assordante che comunica, per contrasto, l’urlo di un settore in grave crisi, a cui gli artisti hanno voluto manifestare tutta la loro solidarietà.
Ho intervistato Federico Rasetti, direttore di Keepon, promotore di questo evento insieme ad Assomusica e Arci, per sapere com’è nata l’iniziativa, gli effetti che ha generato e come proseguirà.
Perché nasce L’ultimo concerto?
“L’ultimo concerto?” nasce per mettere un grosso punto interrogativo sul futuro dei live club che sono chiusi da un anno e rischiano di non riaprire più, con conseguenze pesanti sia per il pubblico con la perdita di una socialità sana e dell’aggregazione positiva sui territori, ma anche per tutto l’indotto lavorativo: i professionisti che lavorano nei live club, le produzioni e gli artisti. Dopo un anno non di silenzio, perché ci siamo fatti sentire anche in altri modi, è nata l’esigenza da parte di questi luoghi di fare una grande manifestazione di impatto.
Quanti sono i lavoratori che ruotano intorno al mondo dei live club in Italia?
Difficile fare una stima precisa, se consideriamo gli artisti, i professionisti, i baristi, i social media manager, quindi non soltanto i tecnici che lavorano direttamente allo spettacolo, abbiamo stimato circa sulle 30.000 unità.
Dietro la chiusura di questi luoghi ci sono progetti imprenditoriali fermi da un anno che non hanno mai riaperto, giusto?
Teoricamente avrebbero potuto riaprire con la ripresa autunnale a settembre-ottobre, però sarebbe stato insostenibile economicamente. Di fatto nessuno ha davvero riaperto.
L’evento principale è stato il 27 febbraio, ma l’iniziativa è partita molto prima. Quali sono stati i passi per arrivare all’evento?
In realtà siamo stati abbastanza veloci perché l’idea iniziale è arrivata più o meno a dicembre, forse prima di Natale, e quando abbiamo visto un’iniziativa molto simile, nata in Spagna, che si chiamava “El ultimo concierto?” abbiamo deciso di emularla in Italia. Lì aveva funzionato abbastanza bene, ottenendo anche un riconoscimento da parte del Governo sotto forma di aiuto economico alle sale, e coinvolgendo circa sessanta live club spagnoli. A quel punto ci siamo chiesti come fare a veicolare un messaggio che fosse positivo e ponesse l’attenzione sulla situazione dei live club, e questa poteva essere un’iniziativa alla quale guardare. Tramite la Live DMA, che è un’associazione internazionale della quale facciamo parte e che racchiude tutte le associazioni di live club europee, abbiamo chiesto ai nostri colleghi spagnoli – mantenendo il segreto per non rivelare in italia il senso dell’iniziativa – se potevamo prendere in prestito l’idea, e loro ci hanno dato l’ok. Così abbiamo iniziato organizzare in un solo mese tutto il piano di comunicazione, il coinvolgimento del club, degli artisti e delle agenzie. Il 28 gennaio, un mese prima dell’evento, abbiamo diffuso un poster con tutte le facciate riempite da punti interrogativi che riportavano l’anno di apertura del locale e il 2021 come anno di probabile chiusura.
All’inizio anch’io sono rimasto spiazzato dal post “L’ultimo concerto?”, pubblicato dal Retronouveau, un locale della mia città. Poi ho capito che il gioco era chiedere ai propri fan quale fosse stato l’ultimo concerto a cui avessero assistito.
Sono state le persone a interpretarlo così, in realtà noi non volevamo chiedere quale fosse stato l’ultimo concerto, ma porre la domanda: quale sarà l’ultimo concerto, quello che avete visto l’anno scorso o quello che ci sarà nel 2021? Perché se continua così non potremo farne altri. Questa cosa ha suscitato interesse e dato forza alla campagna di comunicazione dell’iniziativa.
Il 27 febbraio si è svolto l’evento completo in diretta su facebook. Tutti si aspettavano un’esibizione dal vivo e invece è stata trasmessa una serie di video con la presenza di numerosi artisti. Che cosa abbiamo iniziato a vedere quel giorno?
Il 27 febbraio, accedendo al sito, si aveva la possibilità di scegliere il live club e l’artista di riferimento da vedere. In realtà, non abbiamo mai detto che ci sarebbero stati dei concerti. Abbiamo sempre parlato di eventi e usato questa sottile linea di comunicazione. La stampa stessa ci era cascata tutta, dai grossi network nazionali fino alle webzine indipendenti. Collegandosi si poteva assistere alla preparazione di un live club, si capiva che non era in diretta perché erano dei video montati che simulavano l’inizio di un live, solo che poi non avveniva. Al momento di iniziare il concerto, l’artista rimaneva muto, o faceva partire una nota di chitarra e si fermava. Oppure faceva una dichiarazione o ancora restava completamente fermo davanti al palco. Questo ha provocato uno shock a molte persone. È proprio questa la sensazione che provano ormai da un anno gli operatori del settore, molti di loro stanno addirittura cambiando lavoro, ed è in atto qualcosa di molto grave, per certi versi irrecuperabile. Si sta perdendo capitale umano oltre che capitale d’impresa, e il senso di angoscia è veramente molto forte. Artisti e club volevano trasmettere questo grave pericolo, in primis alle istituzioni.
La cosa che mi ha stupito è che in tanti hanno criticato questa iniziativa. Molti hanno ritenuto che non fosse necessario fare una cosa del genere perché tutti sappiamo cosa significa stare senza concerti. Sono arrivate anche a te queste critiche? Come hai reagito?
Le critiche ci sono arrivate e un po’ ce lo aspettavamo. Noi avevamo paura soprattutto della reazione della stampa perché il nostro target erano le istituzioni. Invece gli organi di informazione hanno capito, esaltando moltissimo l’iniziativa sia per l’efficacia che per la creatività. L’evento è stato apprezzato soprattutto per l’educazione con la quale si è svolto, perché non era facile organizzare un’iniziativa che fosse di rottura senza infrangere la legge, come, invece, hanno fatto gli esercenti pubblici rimanendo aperti o facendo delle manifestazioni di piazza che in questo periodo sono rischiose e possono favorire i contagi.
Probabilmente qualcuno ha sacrificato una serata in cui avrebbe potuto vedere un concerto per un’oretta e mezza, gratuitamente, e magari è arrabbiato perché non si è divertito. Chi ha reagito così non ha compreso il messaggio. Molti hanno detto di sapere com’è la situazione, ma in realtà non è stato facile realizzare questo evento perché i costi di produzione sarebbero stati impossibili da sostenere con l’attuale emergenza economica nel nostro settore. Mi hanno scritto anche le multinazionali, qualche giorno prima, chiedendomi cosa stessimo facendo e prevedendo una figuraccia. Ci dicevano che sarebbe stato impossibile gestire 130 streaming per la nostra piattaforma. Chiaramente un evento musicale dal vivo implica un coinvolgimento diverso, ma è impossibile capire fino in fondo quanto lavoro, fatica e risorse ci siano dietro. Nessuno si permetterebbe di dire che sa come funziona la fisica quantistica, in realtà la musica ha dei meccanismi e delle tipicità che la rendono altrettanto sconosciuta al pubblico. Però questo ha reso evidente che gli artisti con un vasto seguito, come per esempio Ligabue, muovono molte persone. Infatti non abbiamo potuto annunciarlo per problemi di ordine pubblico perché avremmo rischiato che arrivassero tantissime persone a campeggiare davanti al box solo per vederlo. Anche i Subsonica sono stati criticati nell’esporsi facendo una cosa del genere. Mentre tra il pubblico dei piccoli circoli, che è molto più vicino alla realtà del club, quasi nessuno si è lamentato.
In realtà anch’io sono rimasto spiazzato quando ho visto che l’evento era gratuito, poi mi sono accorto che si trattava di brevi video e ne ho guardati un po’…
Alcuni di questi video sono molto ben fatti e commoventi. Questa è stata una protesta rock e, da quando è nato, il rock non ha mai accontentato tutti. Il senso di ribellione ha sempre tracciato dei solchi, un prima e un dopo, ed è quello che speriamo faccia questa manifestazione. In realtà anche le proteste sono servite perché hanno fatto crescere l’evento, generando attesa e dibattito. Infatti i risultati sono arrivati perché ha richiamato l’attenzione sulla situazione dei live club.
Si è parlato tanto del teatro e del cinema ma qualche esponente politico si è espresso sul mondo della musica prima dell’evento del 27 febbraio?
No, per questo motivo le associazioni che rappresentano i live club e che hanno organizzato questo evento, già da prima della pandemia cercavano un contatto con le istituzioni per far sì che queste realtà venissero tutelate. I locali di musica dal vivo non esistono per l’ordinamento giuridico, negli anni, a forza di insistere, c’è stato qualche accenno a questi luoghi e nel 2019 si stava arrivando anche ad un riconoscimento formale. Poi cadde il Governo e, come sempre succede, si dovette ricominciare da capo. L’esposizione dei politici o delle istituzioni in generale è stata sempre molto bassa, mentre dopo “L’ultimo concerto?” uno dei risultati ottenuti è che tre giorni dopo già la parola live club appariva in tre decreti. L’evento è servito a far capire che questi luoghi impattano su milioni di persone in Italia, prima, però, erano molto poche le voci a favore.
Oltre alla protesta quali sono le proposte avanzate per risolvere i problemi del settore?
Le proposte ricadono in tre macro ambiti: il primo che, forse, è il più importante e in futuro aiuterebbe ogni altra attività è quello del riconoscimento per i live club, cioè riconoscere realmente il valore sociale e culturale che hanno questi spazi, ormai al pari di cinema e teatri. L’altro è un riconoscimento formale attraverso la creazione di un albo, per far sì che lo Stato riconosca e tuteli anche economicamente i live club con delle piccole erogazioni, cosicché possano continuare a svolgere il loro lavoro, come già succede per i cinema che distribuiscono film indipendenti. Quello è un ottimo modello a cui guardare perché i club non fanno solo intrattenimento, ma molto spesso scommettono sulle giovani band, creano contenuti artistici e culturali e quindi, secondo noi, vanno sostenuti. Gli altri due grossi macro ambiti sono quello della ripartenza, quindi del sostegno alle arene estive perché si possano fare in modo sostenibile, ma con protocolli di riapertura anch’essi insostenibili, sicuramente non si può riaprire con il 25 % di capienza. E il terzo e ultimo, ma forse il più importante, la riscrittura di una legge dello spettacolo, che è ormai vecchia, con l’abolizione dell’ ISI, una tassa sull’intrattenimento, fino all’equiparazione delle capienze tra spettacoli con il loro aumento a 2.0 e l’abbassamento dell’iva al 10 % con l’equiparazione di questa, ad esempio, sui biglietti per tre differenti spettacoli.
Oltre alle varie agevolazioni di tipo fiscale, leggo anche la volontà di essere parte attiva di un cambiamento con proposte che vedono la rigenerazione urbana e un ruolo anche sociale dei club che molto spesso sono situati in zone della città in cui non c’è niente, in cui la musica gioca un ruolo fondamentale proprio perché dà alle persone la possibilità di incontrarsi e crescere anche dal punto di vista culturale.
E’ proprio così. Peraltro questa è una delle linee che più mi piace dei nostri locali e che sento più vicina nella narrativa che facciamo, ed è quella di favorire la crescita culturale e sociale dei territori. Magari non si parla proprio di rigenerazione urbana perché è una parola con una connotazione specifica. Però i live club aiutano sicuramente i territori e sono importanti nelle periferie, dove a volte sono gli unici posti, in zone afflitte dalla povertà sociale e culturale, che danno un’alternativa rispetto al solito pub o alla discoteca. Inoltre garantiscono la sicurezza: un quartiere dove c’è un locale di musica dal vivo, che fa molto spesso anche altre attività, per esempio associazionistiche, è un quartiere dove le persone possono aggregarsi in sicurezza e il territorio è presidiato anche in orari in cui sarebbe senza controllo. Certo c’è la presenza delle forze dell’ordine e questi luoghi non si vogliono sostituire ad esse, quindi possiamo dire che sarebbe bene avere più telecaster e meno telecamere.
Quanto è diffusa la cultura del live club in Italia? Ci sono tanti club in tutte le parti d’italia oppure è possibile distinguere delle zone? Ci puoi fornire un quadro…
La situazione che emerge è molto diversa. Ad esempio, al sud i live club sono molto meno frequenti, anche la cultura di partecipazione a questi luoghi, ahimè, sta calando, vuoi per la concorrenza del divano e di Netflix che spinge le persone ad uscire sempre meno, ma anche per via dei social network e per ragioni economiche. Di queste realtà, ad esempio, al nord ce ne sono di più, sono più grandi e impattano anche le politiche sociali e culturali delle regioni. In Emilia Romagna avevamo pubblicato una cartina con i live club di tutta la nazione, ed è evidente che proprio qui, oltre ad esserci un quarto dei club di tutta Italia, sono veramente ben distribuiti. In Lombardia, invece, si trovano sostanzialmente a Milano, in Piemonte a Torino, le grosse città la fanno da padrone, mentre in Emilia Romagna dove, da tre anni, c’è una legge sulla musica che tutela questi luoghi e un sistema storico di associazionismo più diffuso, i club, anche se piccoli, sono sempre stati più frequentati. Anche i piccoli paesini hanno il loro circolo dove si fa musica dal vivo.
Quindi secondo te non è qualcosa che è legato soltanto al discorso economico? C’entra anche la cultura e la voglia di usufruire di questo tipo di spettacoli…
Certo, al sud si trascorre generalmente meno tempo in uno spazio chiuso. Ci sono davvero tante concause in realtà.
Che cosa si intende per Live Club?
Guarda questa è una bella domanda. Noi abbiamo fatto un decalogo, che abbiamo consegnato ai ministeri per identificare i live club. Secondo la definizione sono quegli spazi che hanno come ragione economica e/o identitaria la musica dal vivo come prevalente. Devono avere, inoltre, una programmazione che abbia almeno il 50 % di musica dal vivo, di cui il 60-70 % di musica dal vivo originale. Cover e dj set si possono fare, anche perché il dj set performativo è a tutti gli effetti una performance. Devono avere un impianto audio residente, anche a noleggio o in comodato d’uso, e una zona palco adibita e stabile per la musica.
Voi come Keepon raggruppate buona parte dei live club in Italia permettendo loro di fare rete e, in un periodo del genere, anche di far valere i diritti di chi gestisce questi posti, giusto?
Proprio così. Noi li tuteliamo e difendiamo i loro interessi. Il nostro dovere è proprio quello di far sì che riescano a fare al meglio il loro lavoro e accrescano il loro pubblico. Lo facciamo soprattutto con le istituzioni, ma anche tramite attività di networking. Abbiamo organizzato un evento che una volta l’anno li riunisce tutti, è una sorta di convegno medico, ma un po’ più punk. E’ un’iniziativa in cui, ad esempio, un club del Piemonte può confrontarsi con un club siciliano su problematiche, desideri e obiettivi comuni.
Il testo è la trascrizione adattata dell’intervista andata in onda su radioantidoto.org.
Per seguire le attività de “L’Ultimo Concerto?” visita il sito ufficiale dell’iniziativa e la pagina facebook e l’account su Instagram.